Il tema del malato di mente, il
folle…o il pazzo, affonda le sue radici fin nella notte dei tempi.
A dire il vero, l’accezione “
Malato” di mente può dirsi di piuttosto recente acquisizione.
In passato si parlava di follia,
di pazzia o di alienazione! E comunque
il folle era un soggetto disturbante il precario equilibrio sociale.
Il folle era la persona che dava
scandalo (ma forse aveva anche un ingrediente trasgressivo) ed il cattivo
esempio.
Nell’antica Roma, già si
conosceva il cosiddetto “Morbo Comiziale” che era un evento interruttivo dei
Comizi Centuriati i quali, com’è noto (anche oggi in caso di elezioni di
qualsiasi natura il Sindaco convoca i “Comizi”…) erano l’organo deliberante in
forma assembleare dell’antica Roma.
In quel caso accadeva che se uno
dei componenti l’assemblea veniva colto da una crisi comportamentale agita
pubblicamente (epilessia o altre condotte strane) le votazioni venivano
interrotte.
Il folle, con le sue condotte stravaganti ed
inaspettate, provocava una reazione sociale fatta di costrizione (oggi si direbbe contenzione) e dell’espulsione
dal contesto sociale.
Nel corso dei millenni, i due che
sono trascorsi nel periodo più recente, le cose non sono di molto cambiate.
Il tema del malato di mente,
l’alienato, è sempre stato trattato, fino a prima della nascita della
Repubblica e dell’adozione della Costituzione, come un problema sociale e non
sanitario.
Certamente si parlava di malattia
mentale, si conoscevano già le patologie di oggi secondo l’attuale
classificazione distinguendole fra gravi e meno gravi ( psicosi o nevrosi) ma
l’approccio era di natura sociale perseguendo, nel trattamento, l’obiettivo
della tutela dell’ordine sociale.
La possibilità di cura, o del
trattamento sanitario, nel migliore dei casi era collaterale ed eventuale.
Ed infatti, ancora nel Regno
d’Italia, ma con parziale ultrattività anche in tempi di Repubblica e a
Costituzione vigente, era in vigore la Legge Nr 36 del 1904.
In forza di tale legge il
ricovero ( più esattamente
l’internazione) dell’alienato
avveniva solo a richiesta dei parenti e congiunti, o da
chiunque ne avesse interesse…ovviamente era escluso il paziente coinvolto. Era
un atto d’imperio di carattere custodialistico che mirava all’esclusione del
soggetto dal contesto sociale affinché non esibisse pubblico scandalo e non
fosse di cattivo esempio. Ma spesso, come sappiamo, l’’internazione in Ospedale
Psichiatrico serviva anche a regolare rapporti patrimoniali fra parenti.
Insomma il malato di mente era
considerato, anche in termini di legge, come oggetto
di legge piuttosto che soggetto.
Solo nel 1968, con l’approvazione
della cosiddetta Legge Mariotti, Nr 431
venne introdotta, per la prima volta, la possibilità che fosse ( anche) il paziente a chiedere il ricovero in ambiente sanitario per essere
curato.
Dunque solo nel 1968 per il
malato di mente, l’alienato, cominciò a vedersi il percorso d’uscita dal
circuito custodialistico e di espulsione dal tessuto sociale per passare a
quello si assistenza e cure.
Ed infatti, in forza della stessa
legge del 1968, vennero istituiti i primi Centri d’Igiene Mentale ( CIM)
aprendo così la società alla
territorializzazione della malattia.
Ma i malati di mente restavano
ancora chiusi in manicomio ed il percorso di uscita non era ancora completo. Anzi era agli inizi.
Il momento politico era quello
della liberazione e della protesta giovanile del 1968 e le istanze della
società erano di inclusione e solidarietà.
Era il tempo di Franco Basaglia e
della chiusura dei Manicomi.
Così si arriva al 1978 e nel
corso di quell’anno il Partito Radicale si era fatto promotore di un referendum
abrogativo delle norme di legge sui
ricoveri coatti nei manicomi.
Il parlamento di allora, per
evitare un vuoto, o comunque delle scosse legislative, approvò con una certa
urgenza, nel maggio dello stesso anno, la legge 180 cosiddetta di chiusura dei manicomi
che ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica.
Da quel momento, il tempo di sistemare le cose, i malati mente,
i matti, uscirono dai manicomi, e furono liberi di tornare a casa.
Solo in caso di necessità sarebbero stati
ricoverati in ospedale in reparti specialistici, alla stregua degli altri, ( i presidi di
diagnosi e cura) con non più di 15 posti
letto.
Com’è noto, a fine anno dello
stesso 1978, venne approvata la legge 833 di istituzione del SSN, la vera riforma madre della salute, che ha incorporato ( art.33 e seguenti) la
legge 180.
Dunque, dal 1978, il folle, l’alienato,
è entrato nel contesto sociale, cittadino come tutti gli altri, con gli stessi
diritti, e doveri, come mai prima era avvenuto.
Certo rimane, caso quasi unico se
si escludono le vaccinazioni, il Trattamento Sanitario Obbligatorio ( TSO) quale forma di
coartazione della volontà del paziente malato di mente.
Il TSO costituisce l’unica
eccezione al ricovero del malato di mente che si attiva solo in caso di malattia di mente che richiede
cure urgenti, solo se le cure devono essere erogate in ambiente ospedaliero, e
solo se tali cure vengono rifiutate dal paziente stesso.
Insomma anche il malato di mente,
alla stregua di qualsiasi cittadino, decide
lui se prestare il proprio consenso alle cure, se e quando ricoverarsi.
Tranne quando la patologia
psichiatrica è grave e quando ricorrono le condizioni per il TSO che rimane
residuale.
Dunque tutto bene?
Quindi dal 1978 tutti i cittadini
italiani hanno finalmente gli stessi diritti anche quando si ammalano di
patologie mentali?
Il bilancio, ad oggi, della
riforma psichiatrica del 1978, inserita nel contesto delle successive riforme
sanitarie del 1992 e successive, dice che ancora rimangono molte cose da
superare.
E forse le cose e gli
atteggiamenti che frenano non stanno, come spesso ed in altri ambiti avviene in
Italia, in vuoti normativi e non necessitano di interventi del legislatore.
Si registrano ancora i due
elementi che hanno caratterizzato l’approccio alla malattia; ovvero sia quello custodialistico e di esclusione sociale
sia quello di assistenza e cura i quali si
sovrappongono e contrastano fra di loro.
Questa ambivalenza fa sì che anche nei reparti di psichiatria attuali,
dove nello stesso luogo vengono ricoverati i pazienti in TSO e quelli
volontari, le porte di ingresso e uscita restino chiuse a chiave e alle
finestre ( in maniera discreta) vi siano le grate.
Anche i pazienti ordinari, che
hanno “chiesto loro” il ricovero, al momento dell’ingresso in struttura sono
costretti ( in accordo con il medico) a rimanere chiusi in reparto per i primi
giorni di ricovero.
A questo proposito, per quello
che riguarda il tema del consenso rimane ancora vera l’affermazione circolante
in ambito di Psichiatria Forense ove si dice che il consenso del paziente
psichiatrico non è la condizione di inizio della relazione assistenziale…ma
l’obiettivo da raggiungere.
Parrebbe quindi una verità
scientifica l’affermazione che il ricovero psichiatrico, in molti casi, nemmeno
i più gravi, inizia sempre in assenza di consenso e si completa con l’adesione
del paziente al progetto di cura.
In definitiva, quando il paziente
fornisce il consenso alle cure…è nelle condizioni di essere dimesso.
E questo vale sia per i TSO che
per i ricoveri volontari.
Altra criticità è quella che
riguarda l’appropriatezza clinica dei ricoveri in ambiente psichiatrico che
spesso porta ad occupare posti letto persone con problematiche sociali (
tossicodipendenti o disagiati sociali) esibendo condotte aggressive e
distruttive con danni a carico del personale sanitario e degli altri pazienti.
Insomma si potrebbe concludere
dicendo che il quadro normativo relativo alla patologia psichiatrica si è
correttamente evoluto da più di 50 anni, solo che la società, nella prassi
concreta di applicazione della legge, non è stata all’altezza del legislatore.
Mancano risorse economiche da
mettere in campo; assunzione di medici psichiatri e infermieri per erogare più “tempo” ai pazienti psichiatrici.
Evitare di assegnare alle
Strutture psichiatriche, in via surrogatoria, compiti di custodia e
contenimento del disagio sociale escludendo i ricoveri impropri.
Alfredo Maglitto